Dagli automi all’intelligenza artificiale

Dagli automi all’intelligenza artificiale

In effetti l’uomo si dimostra essere cosa divina perché dove la natura finisce di produrre le sue spetie l’uomo quivi comincia colle cose naturali a fare coll’aiutorio d’essa natura infinite spetie.
(Leonardo da Vinci)

Questi raffinati e suggestivi prodotti dell’ingegno umano che preludono in forme bizzarre e inusitate alla tecnologia moderna, oggi non si costruiscono più e sono sostituiti ovunque, se non nei musei e nei teatri della nostalgia, da dispositivi in cui l’elettronica si rivela sempre più sollecita dell’efficienza e sempre meno dell’imitazione puntuale della natura. Eppure gli automi, specie quelli antropomorfi, gli androidi e le ginoidi, continuano a popolare di inquiete proiezioni e torbidi sogni l’immaginario del nostro tempo e di qui travalicano nelle creazioni artistiche e nelle attuazioni tecniche. Anche se le tecnologie sono mutate, persiste e prospera un settore di ricerca, la robotica, in cui riappare la dubitosa e mutevole linea di separazione tra ciò che l’uomo è e ciò che potrebbe diventare, tra ciò che può attuare e ciò che può solo sognare. In questo senso gli automi e compagnia incarneranno sempre – anche nelle nuove vesti informatiche, robotiche e ciborganiche – l’aspirazione dell’uomo a travalicare i limiti della propria contingenza.

In passato la parabola di quest’avventura è stata scandita dalle epoche corrispondenti ai più celebri costruttori di automi: Ctesibio ed Erone il Vecchio nel mondo alessandrino; i figli di Musà e il sommo al-Jazari all’acme della civiltà araba; la progressiva fioritura di quest’arte nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento europeo, culminata nelle opere degli artigiani di Augusta e di Norimberga; fino al Secolo dei lumi, con le anatomies mouvantes di Vaucanson (il flautista, il tamburino, e soprattutto l’anatra digerente, un automa a forma di papera che si moveva qua e là, becchettava chicchi di grano e li digeriva… defecando) e con le bambole perfette dei Jaquet-Droz (lo scrivano, il disegnatore, la sonatrice); per confluire infine nell’arte degli orologiai svizzeri. In questa prospettiva, gli Swatch sono gli ultimi epigoni degli automi.

L’anatra digerente, uno dei celebri automi
di Jacques de Vaucanson (1709-1782)

Accanto ai Golem, alle statue parlanti, ai prodigi e ai mostri delle leggende e della letteratura, gli automi sono dunque i protagonisti di una storia affascinante e tenebrosa di meccanica onirica, dove magia e occultismo s’intrecciano con la genialità inventiva, in un turbinio di personaggi eterogenei: inventori, maghi, affaristi, ciurmadori, studiosi, prestidigitatori e creduloni. Ma su un altro versante la storia di queste creature artificiali, di volta in volta seducenti, preziose, inquietanti e sospette, costituisce un distillato significativo dell’intera storia della tecnica e dell’afflato prometeico che l’ha sempre animata.
I manufatti, pur nella loro stupefacente raffinatezza, restavano comunque lontanissimi dal loro modello, uomo o animale, cui li avvicinava sì la forma esteriore, ma non una puntuale somiglianza strutturale e funzionale. La situazione subì una svolta radicale quando cominciò ad emergere e a prender vigore una corrente di pensiero e di ricerca legata all’informazione, che per secoli era stata quasi del tutto celata dalle più clamorose conquiste relative alla materia e all’energia. Del mondo dell’informazione, che è retto da leggi piuttosto diverse da quelle della fisica, si cominciò ad avere piena consapevolezza solo verso la metà del Novecento, soprattutto grazie alle ricerche stimolate dalla seconda guerra mondiale nel campo dei calcolatori e delle telecomunicazioni.
Si vide che energia e informazione, pur non essendo riconducibili l’una all’altra, interagiscono in modi vari e talora sorprendenti. Soprattutto si capì che il calcolatore, lungi dall’essere una semplice macchina per far di conto, possedeva capacità enormi e tutte da esplorare proprio nell’ambito del mondo dell’informazione e della mente. Questa consapevolezza portò, nel 1956, alla nascita di una nuova disciplina, cui fu dato il nome, per la verità, come vedremo, un po’ infelice e fonte di equivoci durevoli, di intelligenza artificiale (IA), e il calcolatore divenne il modello di elezione della mente umana.
Risuscitava così in forme nuove la vecchia ambizione di replicare l’atto della creazione, ma non più con l’ingenuo e impossibile intento di costruire una creatura simile all’uomo nel suo complesso, bensì con l’ambizione di riprodurre o simulare con estrema precisione una sua sola parte: la mente. La fantasia cominciava dunque a diventare realtà, sia pure limitatamente a un solo aspetto, ma si trattava dell’aspetto ritenuto più caratteristico dell’uomo: l’intelligenza. Dal Golem, riproduzione perfetta, ma immaginaria, di un uomo, si era passati alla riproduzione, non ancora perfetta, ma perfettibile e concretissima, della mente, cioè del carattere distintivo dell’uomo: dunque, a meno di nostalgie corporee, si era giunti a riprodurre l’uomo tutt’intero.
Ma è proprio a partire di qui che cominciano a profilarsi i problemi più inquietanti della “roboetica”.  

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